Così doveva essere e così è stato. Alla fine i capi di stato e di governo hanno designato come candidato alla Presidenza della Commissione UE Jean Claude Juncker che per lungo tempo è stato premier del Lussemburgo e soprattutto presidente dell'Eurogruppo, in cui convergono i ministri economici dell'Eurozona.
La designazione Juncker, che a metà del mese prossimo sarà ufficialmente ratificata dal Parlamento Europeo, ha trovato ampia convergenza con la sola eccezione della Gran Bretagna (Cameron) e Ungheria (Orban).
E' un'opzione che mi preoccupa perchè Juncker, Juncker Meister, sarà il vero calice amaro dell'Eurozona che nel prossimo quinquennio si sfracellerà come il Titanic contro l'iceberg dell'austerità.
Juncker Meister è celebre per la frase "Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un pò per vedere che succede. Se non provoca proteste nè rivolte, perchè la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno".
Questa è la filosofia del futuro Presidente della Commissione U. E' quel punto di non ritorno che viene immancabilmente spostato sempre più in avanti per conseguire la totale demolizione delle sovranità nazionali e l'accentramento verticistico e referenziale delle politiche economiche e monetarie.
Tutto questo è avvenuto con la complicità del nostro Presidente del Consiglio l'unico a non fare gli interessi della Nazione che dovrebbe rappresentare. Meditate euristi, meditate, bevendo il calice amaro Juncker Meister ... sempre che non se lo scoli prima lui .... per quel suo vizio all'alcol pubblicamente denunciato da un importante organo di stampa tedesco (Der Spiegel qui)
La nostra rinascita non è possibile senza la riconquista della nostra sovranità
sabato 28 giugno 2014
venerdì 27 giugno 2014
La Questione Tedesca e i Giochi di Prestigio
Parlando di Eurozona, emerge anche la Questione Tedesca, nel momento in cui la Germania pretende dagli altri il rispetto di quelle regole che lei per prima non ha rispettato. Si tratta di un metodo pericoloso che alla lunga può innescare conseguenze imprevedebili.
Procediamo con ordine, partendo anzitutto dall' assurdità della regola del 3% (il c.d. Patto di Stabilità) nel rapporto tra il saldo del bilancio pubblico e PIL nei paesi dell'EZ su cui, in questi giorni, Angela Merkel sta aprendo alla possibilita di interpretazioni meno rigide.
Negli anni a cavallo fra il 2002 e il 2003, la Germania - per far fronte alla crescente disoccupazione che aveva raggiunto quasi il 10% - ha avviato un'importante piano di riforma del mercato del lavoro (meglio nota con l'etichetta delle " Riforme Hartz" ) attraverso un aumento di spesa pubblica pari a circa 120 miliardi di Euro, di cui più di 90 furono impegnati in politiche di sostegno all'economia, attraverso sussidi alle imprese.
Una riforma che, è bene ricordare grazie all'intervista di Dierk Hiershel capo del sindacato dei Ver.di. pubblicata qui, si è realizzata attraverso un "magico gioco di prestigio": dal 2000 ad oggi sono stati smantellati 1,5 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato e "ricreati" 3 milioni di lavori part-time. Uno spezzatino per effetto del quale oggi in Germania
- non si lavora più di quanto si facesse 13 anni fa (per il report rinvio qui),
- si può lavorare anche per meno di 15 ore settimanali,
- senza contributi previdenziali, nè assistenza sanitaria e
- con una retribuzione non superiore a 400 Euro.
L'accelerazione verso queste forme di lavoro atipico, che ha dato vita a quasi 5 milioni di mini-job (qui trovate il riferimento) , è trascesa - in alcuni casi estremi - in una vera e propria legalizzazione del lavoro nero, poichè il datore di lavoro licenziava il suo lavoratore a tempo indeterminato e, contemporaneamente lo riassumeva con 2, anche 3 mini-job senza versamento dei contributi previdenziali (poi ci si chiede perchè i costi del lavoro sono diversi ?!): è il caso della catena di drogherie Schleckler accusata di dumping salariale in Germania dal sindacato dei Ver.di e successivamente fallita (anche per la rinuncia a dette pratiche), mettendo a repentaglio 24.000 posti di lavoro.
Questa riforma, che oggi viene oggi invocata finanche dalla BCE, ha
- favorito la crescita dell'export tedesco (che ha registrato + 10% nel triennio immediatamente successivo all'ingresso della riforma Hartz IV),
- inevitabilmente ridotto i salari reali tedeschi del 6% e
- migliorato la competitività tedesca che, storicamente, gode di di una potente ed articolato apparato industriale, capace di generare surplus strutturali anche con un'eventuale crescita della domanda interna che si baserebbe sia pure parzialmente sulla crescita degli investimenti.
Che cosa è accaduto allora in Germania e dintorni ? Semplice: hanno migliorato la competitività (che significa aumentato le vendite su estero e la produttività), attraverso una riduzione dei salari e dei CLUP (costi del lavoro per ogni unità di prodotto, cui hanno espunto contributi pensionistici, TFR, giusto per intenderci).
In termini più sintetici, ha realizzato una svalutazione interna, reale, competitiva. Ma non finisce qua perchè nel paese che viene dipinto come modello da imitare, secondo il numero 1 dell'Euro Tower, accanto ai mini-job, si affianca un'altra categoria di lavoratori irregolari cui attinge la GroBe Deutschland: sono quelli della Germania Est, ove il reddito medio di una famiglia è ancora oggi di oltre il 50% inferiore a quello di una famiglia dell'Ovest (i dati sono qui).
Di qui i tasselli di un mosaico che possiamo comporre assieme: da una parte gli afflussi di capitale "generosamente" affluiti dal Nord Europa verso la periferia che ne ha drogato la crescita e i consumi interni (me ne sono occupato qui); dall'altro, il grande serabatoio di manodopera tedesca reperibile a buon mercato. Ecco il cocktail micidiale che ha causato gli squilibri e la crisi nell'Eurozona.
Queste considerazioni trovano l'avallo dell'ILO, l'International Labour Office delle Nazioni Unite (nel Box 4, pag. 45 qui) che individua nella crescente competitività tedesca (originata dalla caduta dei costi unitari del lavoro in Germania) la causa strutturale della crisi dell'EZ, avendo messo sotto pressione le economie degli altri paesi che non hanno potuto supplire alla crisi del mercato interno con un aumento di esportazioni poichè non hanno beneficiato di una più forte domanda aggregata in Germania.
A tale riguardo è significativa l'intervista, pubblicata dal CorSera, a Roland Berger, consulente del governo Merkel, il quale ha dichiarato che le riduzioni salariali ai lavoratori tedeschi hanno comportato la riduzione del 18% dei prezzi dei prodotti; ed è ovvio che riducendosi il livello generale dei prezzi si sia ridotta l'inflazione che, collocandosi al di sotto di quella degli altri partners europei, ha permesso di generare quei saldi commerciali netti, quindi profitti e quindi quei crediti che sono stati prestati ai paesi dell'Europa del Sud.
Questi sono i dati nudi e crudi, documentati con le analisi ufficiali e sfido ora chiunque a dimostrare il contrario.
A tale riguardo è significativa l'intervista, pubblicata dal CorSera, a Roland Berger, consulente del governo Merkel, il quale ha dichiarato che le riduzioni salariali ai lavoratori tedeschi hanno comportato la riduzione del 18% dei prezzi dei prodotti; ed è ovvio che riducendosi il livello generale dei prezzi si sia ridotta l'inflazione che, collocandosi al di sotto di quella degli altri partners europei, ha permesso di generare quei saldi commerciali netti, quindi profitti e quindi quei crediti che sono stati prestati ai paesi dell'Europa del Sud.
Questi sono i dati nudi e crudi, documentati con le analisi ufficiali e sfido ora chiunque a dimostrare il contrario.
mercoledì 25 giugno 2014
Reddito di Cittadinanza e Reddito Minimo Garantito
Se ne parla molto nell'ambito dell'Eurozona nel tentativo di allineare il nostro paese agli standard di altri stati europei ed extraeuropei. Parlo di reddito di cittadinanza sempre più frequentemente confuso con il reddito minimo garantito: le due espressioni vengono ormai disinvoltamente impiegate, lasciando sottintendere un significato pressochè equivalente, quando, in verità, la distinzione cela rilevanti risvolti pratici non soltanto sul piano economico, ma anche sull'assetto sociale che s'aspira raggiungere.
Il reddito minimo garantito è un vero e proprio ammortizzatore sociale erogato (in forma monetaria o attraverso beni o servizi primari) a persone che, in età lavorativa, si trovano nell'indisponibilità di un lavoro capace di assicurargli un reddito dignitoso, poichè inferiore alla cosiddetta soglia minima di povertà.
La sua commisurazione tiene conto di una serie di parametri subordinati all'accertamento dello stato di bisogno individuale e/o familiare dell'avente diritto e della sua fattiva ricerca di un lavoro.
Si tratta di un sistema di welfare complementare che muove dalla precarietà dilagante, assurta a normale forma della nuova organizzazione del lavoro imposta dal sistema capitalistico moderno, destinata ai percettori di redditi di povertà (salari minimi, precari in condizioni di non lavoro) per "puntellarne" le condizioni di vita assolutamente insufficienti ad assicurare loro un tenore di vita dignitoso.
Il reddito di cittadinanza è invece un reddito monetario incondizionato erogato per effetto della mera appartenenza ad una collettività. E' legato ad uno status (membership), in forza del quale l'individuo diventa sic et sempliciter destinatario di una somma di danaro, corrisposta periodicamente, cumulabile con altre entrate, e che prescinde
Il reddito minimo garantito è un vero e proprio ammortizzatore sociale erogato (in forma monetaria o attraverso beni o servizi primari) a persone che, in età lavorativa, si trovano nell'indisponibilità di un lavoro capace di assicurargli un reddito dignitoso, poichè inferiore alla cosiddetta soglia minima di povertà.
La sua commisurazione tiene conto di una serie di parametri subordinati all'accertamento dello stato di bisogno individuale e/o familiare dell'avente diritto e della sua fattiva ricerca di un lavoro.
Si tratta di un sistema di welfare complementare che muove dalla precarietà dilagante, assurta a normale forma della nuova organizzazione del lavoro imposta dal sistema capitalistico moderno, destinata ai percettori di redditi di povertà (salari minimi, precari in condizioni di non lavoro) per "puntellarne" le condizioni di vita assolutamente insufficienti ad assicurare loro un tenore di vita dignitoso.
Il reddito di cittadinanza è invece un reddito monetario incondizionato erogato per effetto della mera appartenenza ad una collettività. E' legato ad uno status (membership), in forza del quale l'individuo diventa sic et sempliciter destinatario di una somma di danaro, corrisposta periodicamente, cumulabile con altre entrate, e che prescinde
- da ogni controllo sull'effettivo bisogno e quindi da ogni accertamento sulle sue condizioni economiche e/o familiari,
- da ogni esigenza di contropartite.
Va da sè, sotto questo profilo, che il rifiuto ad un'offerta di lavoro non faccia decadere dal predetto beneficio.
Ferma restando la possibilità di apportare correttivi a questo secondo profilo, è evidente che mentre il reddito di cittadinanza è un'erogazione monetaria valida per tutti i cittadini, indipendentemente da ogni accertamento sul reddito, patrimonio e occupazione, il reddito minimo garantito rappresenta un sussidio, uno strumento di contrasto alla povertà per chi ha un lavoro, che è incapace di procurargli un reddito adeguato.
Walt Disney, con uno dei suoi intramontabili fumetti, ebbe modo di occuparsi del reddito di cittadinanza, smascherandone attraverso la geniale ironia, il maldestro tentativo di sottrarsi dalle "pene lavorative".
Del tema se ne occupò anche F. Von Hayeck col dichiarato (e diverso) intento di ".. fornire agli indigenti e agli affamati una qualche forma di aiuto" che, si badi bene, fosse strumentale al ceto possidente, utile cioè a "disinnescare" quegli atti di disperazione pregiudizievoli agli interessi economici delle classi superiori.
La domanda che a questo punto sorge spontanea è: il reddito di cittadinanza è compatibile con gli impegni dello Stato italiano ?
Qualunque sia il punto di osservazione la risposta non può che essere negativa: il reddito di cittadinanza implica la resa, da parte di qualsiasi istituzione, ad impiegare tutti gli strumenti di politica economica di sostegno - diretto ed indiretto - al pieno impiego, nonchè un espediente utile a evitare il collasso della domanda interna, disciplinando la società a livelli di reddito più bassi.
Dal punto di vista giuridico e costituzionale, il reddito di cittadinanza non trova neppure riscontro nella Carta fondamentale: la Repubblica italiana è fondata sul lavoro (art. 4) ed è compito dello Stato rimuovere ogni ostacolo economico-sociale che si frappone al pieno sviluppo della persona umana, garantendo l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2).
Basterebbe già questo ad accantonare l'assurdità di una proposta economicamente insostenibile, acceleratrice di deflazioni salariali.
Basterebbe già questo ad accantonare l'assurdità di una proposta economicamente insostenibile, acceleratrice di deflazioni salariali.
Il reddito minimo garantito dev'essere tenuto distinto dall'ASPI (Assicurazione Sociale per l'Impiego, sancita dalla riforma del lavoro, come indennità riconosciuta ai lavoratori subordinati che hanno perduto involontariamente l'occupazione - dopo l'inizio del 2013 riconosciuta a coloro che abbiano maturato 2 anni di lavoro e versato almeno 1 anno di contributi - e corrispondente alla vecchia indennità di disoccupazione, spettante ai lavoratori dipendenti espulsi o indebitamente usciti dal processo di lavoro), poichè il reddito minimo garantito viene erogato in presenza di un lavoro e, quindi, a conclusione dell'ASPI e trova maggiori similitudini con l'istituto della Cassa Integrazione Guadagni, ove l'integrazione salariale, da parte dell'INPS o del Ministero del Lavoro, è dovuta alla temporanea sospensione delle attività produttive, causate da crisi economiche, ristrutturazioni o riconversioni aziendali, per effetto delle quali il lavoratore è
- sospeso dalle mansioni lavorative, ovvero
- impegnato ad orario ridotto.
Va da sè, quindi, che il tema richieda un'attenta e meditata riflessione: dire, come spesso capita di sentire e/o leggere, che l'Italia ignori l'abc dello stato sociale, sia culturalmente arretrata rispetto ad altre Nazioni solo perchè non è dotata di strumenti come il reddito di cittadinanza o di reddito minimo garantito è una grossolana approssimazione.
In altre Nazioni ci sono delle forme aggiuntive come il sussidio di avviamento all'indipendenza, di circa 1000 Euro mensili, concessi a diciottenni che desiderano emanciparsi dalla famiglia d'origine, ma naturalmente non se ne parla.
Se vogliamo dare risposte concrete per arginare il crescente fenomeno delle famiglie che restano senza un reddito, o degli operai che si danno fuoco, non sarà certo scopiazzando formule assistenzialistiche collaudate in altri Paesi, ma restituendo al lavoro quel valore di dignità che oggi è negato per insipiente volontà politica.
giovedì 19 giugno 2014
Le Nostre Tasse
Siamo a cavallo di vari adempimenti fiscali: tributi, tasse, imposte, accise sono esercizio del potere d'imperio attraverso il quale, oggi, lo Stato e le sue articolazioni periferiche finanziano l'erogazione dei servizi pubblici.
Sono, più esattamente, prelievi forzosi sugli stock di ricchezze e sui flussi di redditi dei cittadini e rappresentano, accanto all'emissione dei titoli di stato, le risorse in entrata per il bilancio dello Stato.
Lo Stato è dunque parificabile, oggi, ad un padre di famiglia che, per le esigenze di funzionamento del suo "consorzio", preleva coattivamente dai suoi componenti quelle prestazioni a contenuto patrimoniale necessarie al suo funzionamento.
E' così dalla notte dei tempi, dall'epoca del diritto romano, e ancor di più - oggi - nei 16 paesi dell'Eurozona, in cui le nostre tasse servono a dar danaro allo Stato per finanziare il suo fabbisogno monetario, perchè oggi quei Paesi non possono più spendere, essendosi espropriati della loro moneta.
Già l'idea che lo Stato "spenda" in sè è equivoca: sottende ad una surretizia sottrazione di risorse, impiegate in un settore, con potenziale sacrificio per un altro.
Lo Stato, se è proprietario della moneta, non spende e non crea alcun debito con nessuno dei suoi cittadini. D'altro canto è intuitivo che le tasse con moneta sovrana non possano pagare alcunchè, visto che rappresentano quelle stesse risorse finanziarie precedentemente immesse nella collettività e che, poi, lo Stato si riprende indietro in percentuale inferiore.
Oltretutto, un governo a moneta sovrana, proprietario della moneta, perchè mai dovrebbe complicarsi la vita riprendendosela indietro, per poi rispenderla nuovamente ? .. Fa prima a crearne dell'altra, dato che la moneta, dal 1971, non ha più alcun rapporto con metalli preziosi, circola con "valore fiduciario" ed ha potere solutorio (liberatorio) dei pagamenti, con effetto estintivo di tutti i rapporti economici e patrimoniali.
Le tasse, dunque, a che servono in uno Stato sovrano, proprietario della moneta ? Giuridicamente, è la nostra Costituzione a chiarirne le finalità. Sono un mezzo attraverso il quale i cittadini concorrono alla spesa pubblica, in ragione della propria capacità contributiva (attitudine economica a produrre reddito e ricchezza) che viene calcolata sulla base di indici diretti (reddito, patrimonio ed incrementi patrimoniali) ed indiretti (consumi,spese e affari) rivelatori di ricchezza.
Questo dovere di partecipazione solidaristica alla spesa è improntato dal costituente su criteri di progressività.
Questo significa che la Costituzione instrada il legislatore ordinario sul piano metodologico di prelievo: la progressività, appunto, che s'ottiene semplicemente attraverso l'applicazione di aliquote marginali superiori a quelle medie, o - se preferite - attraverso un approccio di non regressività del sistema. Ne consegue che il legislatore ordinario resta libero di modellare il sistema di progressivo del sistema tributario nella più totale discrezionalità: sarà una sua scelta puramente politica adottare un criterio di progressività estrema, moderata o attenuata, così come la graduazione delle aliquote o l’introduzione di deduzioni e detrazioni.
Allo stesso modo, i criteri di progressività enunciati dalla Costituzione non impongono neppure l'adozione di aliquote graduate, perché la progressione del prelievo può essere ottenuta anche adottando imposte ad aliquota proporzionale con esenzione alla base e/o un sistema di deduzioni o detrazioni decrescenti al crescere del reddito.
Nei limiti del vincolo costituzionale della progressività, il legislatore potrà "plasmare" il sistema nei metodi e nelle modalità a lui più congeniali.
Dal punto di vista economico, poi, il prelievo tributario è una sottrazione coatta di denaro che viene distrutto.
La tassazione potrà dunque assolvere varie esigenze
Sono, più esattamente, prelievi forzosi sugli stock di ricchezze e sui flussi di redditi dei cittadini e rappresentano, accanto all'emissione dei titoli di stato, le risorse in entrata per il bilancio dello Stato.
Lo Stato è dunque parificabile, oggi, ad un padre di famiglia che, per le esigenze di funzionamento del suo "consorzio", preleva coattivamente dai suoi componenti quelle prestazioni a contenuto patrimoniale necessarie al suo funzionamento.
E' così dalla notte dei tempi, dall'epoca del diritto romano, e ancor di più - oggi - nei 16 paesi dell'Eurozona, in cui le nostre tasse servono a dar danaro allo Stato per finanziare il suo fabbisogno monetario, perchè oggi quei Paesi non possono più spendere, essendosi espropriati della loro moneta.
Già l'idea che lo Stato "spenda" in sè è equivoca: sottende ad una surretizia sottrazione di risorse, impiegate in un settore, con potenziale sacrificio per un altro.
Lo Stato, se è proprietario della moneta, non spende e non crea alcun debito con nessuno dei suoi cittadini. D'altro canto è intuitivo che le tasse con moneta sovrana non possano pagare alcunchè, visto che rappresentano quelle stesse risorse finanziarie precedentemente immesse nella collettività e che, poi, lo Stato si riprende indietro in percentuale inferiore.
Oltretutto, un governo a moneta sovrana, proprietario della moneta, perchè mai dovrebbe complicarsi la vita riprendendosela indietro, per poi rispenderla nuovamente ? .. Fa prima a crearne dell'altra, dato che la moneta, dal 1971, non ha più alcun rapporto con metalli preziosi, circola con "valore fiduciario" ed ha potere solutorio (liberatorio) dei pagamenti, con effetto estintivo di tutti i rapporti economici e patrimoniali.
Le tasse, dunque, a che servono in uno Stato sovrano, proprietario della moneta ? Giuridicamente, è la nostra Costituzione a chiarirne le finalità. Sono un mezzo attraverso il quale i cittadini concorrono alla spesa pubblica, in ragione della propria capacità contributiva (attitudine economica a produrre reddito e ricchezza) che viene calcolata sulla base di indici diretti (reddito, patrimonio ed incrementi patrimoniali) ed indiretti (consumi,spese e affari) rivelatori di ricchezza.
Questo dovere di partecipazione solidaristica alla spesa è improntato dal costituente su criteri di progressività.
Questo significa che la Costituzione instrada il legislatore ordinario sul piano metodologico di prelievo: la progressività, appunto, che s'ottiene semplicemente attraverso l'applicazione di aliquote marginali superiori a quelle medie, o - se preferite - attraverso un approccio di non regressività del sistema. Ne consegue che il legislatore ordinario resta libero di modellare il sistema di progressivo del sistema tributario nella più totale discrezionalità: sarà una sua scelta puramente politica adottare un criterio di progressività estrema, moderata o attenuata, così come la graduazione delle aliquote o l’introduzione di deduzioni e detrazioni.
Allo stesso modo, i criteri di progressività enunciati dalla Costituzione non impongono neppure l'adozione di aliquote graduate, perché la progressione del prelievo può essere ottenuta anche adottando imposte ad aliquota proporzionale con esenzione alla base e/o un sistema di deduzioni o detrazioni decrescenti al crescere del reddito.
Nei limiti del vincolo costituzionale della progressività, il legislatore potrà "plasmare" il sistema nei metodi e nelle modalità a lui più congeniali.
Dal punto di vista economico, poi, il prelievo tributario è una sottrazione coatta di denaro che viene distrutto.
La tassazione potrà dunque assolvere varie esigenze
- tenere a freno il potere economico dei ceti possidenti,
- controllare l'inflazione,
- orientare i comportamenti di consumo, scoraggiandone taluni e favorendone degli altri.
- imporre ai cittadini l'uso della moneta nella regolamentazione giuridica di tutti i suoi rapporti aventi contenuti economico e patrimoniale. Se non esistesse l'obbligo a carico di tutti i cittadini di pagare le tasse con la moneta sovrana di uno Stato, lo Stato perderebbe il suo ruolo di autorità sul consorzio sociale.
Chiedete a chiunque "A cosa servono le tasse ?". Nella migliore delle ipotesi, la risposta sarà "Ad assicurare il fabbisogno monetario necessario al funzionamento dello Stato" che deve far fronte alle spese per la sanità, all'istruzione, alle infrastrutture, alle pensioni, ecc. Questo è ciò che accade attualmente fra i 16 paesi dell'Eurozona.
Nella peggiore delle ipotesi, otterrete la risposta contenuta nella slide.
La verità è un'altra: è impossibile che le vostre tasse finanzino alcunchè: sono soldi che il governo ha precedentemente immesso nella collettività e che POI si riprende indietro in misura inferiore. Se non lo fa è perchè DEVE perseguire quel principio di pareggio di bilancio, per effetto del quale "spende in funzione di quante sono le sue entrate" . Ma così facendo impoverisce il suo consorzio. Se non lo fa, resta sotto il ricatto dei mercati finanziari cui dovrà firmare dei veri e propri "pagherò cambiari" (i suoi titoli di Stato), indebitandosi. E i debiti vanno ripagati, sempre, con l'aggravio degli interessi.
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mercoledì 18 giugno 2014
Le regole di un Bravo Skipper
Vorrei parlare di cambi flessibili e cambi rigidi e lo voglio fare, come sto tentando da alcune settimane in questo blog, in modo del tutto informale, ricorrendo anche a metafore che possano più efficacemente esplicare il funzionamento di meccanismi economici che, se dibattuti in forma accademica, resterebbero riservati nella cerchia degli addetti ai lavori, quindi per quei pochi eletti, muniti di raffinate ed elevate conoscenze teoriche.
Se la conclusione formulata dal prof. Gandolfo "Lancia una moneta in aria e avrai una previsione sul cambio a breve, a medio e talvolta anche lungo termine migliore di quella dei modelli economici" sintetizza, con la mirabile saggezza dei grandi, la possibilità di costruire solo una ragionevole previsione sul segno delle variazioni del cambio, senza tuttavia certezze nè sull'entità, nè, tantomeno, sul loro sentiero dinamico, la soluzione dei cambi flessibili, come scrisse John Meade - parafrasando l'atteggiamento di Churchill verso la democrazia -, è "il peggiore regime di cambio esclusi tutti gli altri".
Perchè allora si invoca il ritorno al cambio flessibile ? in che senso il cambio flessibile resta il peggiore regime di cambio esclusi tutti gli altri ?
Per fare questo vorrei richiamare la metafora del bravo skipper, il timoniere che comanda il suo equipaggio, che regola la tensione di quei cavi in metallo che sorreggono l'albero della barca e che ne determinano la messa in sicurezza, affinchè possa assorbire quelle turbolenze e raffiche improvvise di vento che si possono incontrare durante le andature in mare.
La mancata messa a punto delle sartìè (questo è il termine tecnico) può produrre la deformazione se non addirittura la rottura dell'albero. Di qui la necessità di adoperare tutti gli accorgimenti necessari a scongiurare eccessive flessioni all'indietro, soprattutto delle estremità molto alte degli alberi.
Il sistema dell'Eurozona è congegnato esattamente così: si impone a tutti una rigidità dei cavi (cambi) che toglie quelle capacità
Come insegna Frenkel "non esiste un regime di cambio che vada bene per ogni Paese in ogni periodo", anche se c'è chi, molto convintamente, sostiene che i benefici dell'integrazione monetaria siano costituiti dalla certezza del cambio, vale a dire dai cambi fissi o moneta unica.
La flessibilità del cambio, nel contesto integrato di politiche di controlli sui movimenti di capitali e di merci atte a scongiurare speculazioni destabilizzanti, sono in grado di restituire maggiore stabilità macroeconomica, una maggiore efficacia alle manovre di aggiustamento a episodi di turbolenza sui mercati o alle compensazione delle asimmetrie strutturali.
In un contesto come l'attuale in cui i Paesi più deboli non hanno la possibilità di difendersi, i Paesi forti non hanno alcun motivo per mitigare le proprie pretese. Se chi è aggredito è munito di strumenti difensivi potrà più agevolmente stimolare soluzioni cooperative che oggi sono ancora lontane a venire.
Se la conclusione formulata dal prof. Gandolfo "Lancia una moneta in aria e avrai una previsione sul cambio a breve, a medio e talvolta anche lungo termine migliore di quella dei modelli economici" sintetizza, con la mirabile saggezza dei grandi, la possibilità di costruire solo una ragionevole previsione sul segno delle variazioni del cambio, senza tuttavia certezze nè sull'entità, nè, tantomeno, sul loro sentiero dinamico, la soluzione dei cambi flessibili, come scrisse John Meade - parafrasando l'atteggiamento di Churchill verso la democrazia -, è "il peggiore regime di cambio esclusi tutti gli altri".
Perchè allora si invoca il ritorno al cambio flessibile ? in che senso il cambio flessibile resta il peggiore regime di cambio esclusi tutti gli altri ?
Per fare questo vorrei richiamare la metafora del bravo skipper, il timoniere che comanda il suo equipaggio, che regola la tensione di quei cavi in metallo che sorreggono l'albero della barca e che ne determinano la messa in sicurezza, affinchè possa assorbire quelle turbolenze e raffiche improvvise di vento che si possono incontrare durante le andature in mare.
La mancata messa a punto delle sartìè (questo è il termine tecnico) può produrre la deformazione se non addirittura la rottura dell'albero. Di qui la necessità di adoperare tutti gli accorgimenti necessari a scongiurare eccessive flessioni all'indietro, soprattutto delle estremità molto alte degli alberi.
Il sistema dell'Eurozona è congegnato esattamente così: si impone a tutti una rigidità dei cavi (cambi) che toglie quelle capacità
- di riassorbimento agli shock esterni (raffiche di vento) che si possono incontrare;
- di appianare quelle divergenze strutturali (l'inflazione soprattutto) che, accumulandosi nel tempo, danno luogo a forti asimmetrie economiche.
Come insegna Frenkel "non esiste un regime di cambio che vada bene per ogni Paese in ogni periodo", anche se c'è chi, molto convintamente, sostiene che i benefici dell'integrazione monetaria siano costituiti dalla certezza del cambio, vale a dire dai cambi fissi o moneta unica.
La flessibilità del cambio, nel contesto integrato di politiche di controlli sui movimenti di capitali e di merci atte a scongiurare speculazioni destabilizzanti, sono in grado di restituire maggiore stabilità macroeconomica, una maggiore efficacia alle manovre di aggiustamento a episodi di turbolenza sui mercati o alle compensazione delle asimmetrie strutturali.
In un contesto come l'attuale in cui i Paesi più deboli non hanno la possibilità di difendersi, i Paesi forti non hanno alcun motivo per mitigare le proprie pretese. Se chi è aggredito è munito di strumenti difensivi potrà più agevolmente stimolare soluzioni cooperative che oggi sono ancora lontane a venire.
martedì 17 giugno 2014
La Grande Tonnara
Non trovo espressione migliore per descrivere il disastro economico economico che si sta perpetrando in questi anni sui paesi deboli dell'Eurozona. Una grande tonnara, come l'azione di pesca che dura diverse ore, in cui le prede vengono catturate a tradimento e fatte entrare nell'ultima camera di rete, denominata camera della morte, in cui avviene la mattanza.
L'adozione di un tasso di cambio nominale fisso, la liberalizzazione dei mercati finanziari e dei movimenti internazionali di capitali rappresentano, infatti, lo scenario economico in cui si consuma l'atroce smantellamento dei diritti economici e sociali delle collettività europee.
L'abolizione del cambio nell'Eurozona ha azzerato i rischi di svalutazione, favorendo un ingente trasferimento di capitali che dal Nord Europa sono affluiti verso i paesi economicamente più arretrati, caratterizzati, almeno nella fase iniziale, da tassi d'interesse più elevati che hanno fatto poi esplodere i debiti privati esteri, all'origine della crisi attuale.
In altra prospettiva, quella che attraversiamo non è semplicemente una crisi di inefficienza di sistema, ma di deficit di partite correnti, che trova la propria origine nelle liberalizzazioni dei flussi di capitali e negli effetti destabilizzanti prodotti sulle economie reali.
Per questo, la radice della crisi è prima di tutto economica e poi finanziaria: è una crisi economica che affonda le sue radici nell'indebitamento privato, nel grave appesantimento di squilibrio delle partite correnti su cui poi si è innestata la speculazione finanziaria.
Attorno alla metà degli anni Ottanta la "forbice" dei tassi d'inflazione era particolarmente aperta fra i paesi dell'Europa: si passava dal 30% del Portogallo al 3% della Germania. A seguito del "processo di convergenza" verso l'Euro le divaricazioni si sono progressivamente assottigliate, per poi riaprirsi nuovamente in occasione dello scoppio dello scoppio della crisi.
Ci piaccia o no la Germania e i Paesi del Nord Europa, hanno violato gli obblighi di coordinamento delle politiche economiche ex art. 5 TFUE e la stessa Commissione europea ha preso atto della pericolosità delle svalutazioni competitive, attivando una procedura di monitoraggio che la penalizza.
Accanto a questi dati, si profila in tutta Europa un'accelerazione della compressione dei diritti economici e sociali che acuiscono disuguaglianze reddituali anche nei riguardi di quei paesi, (v.si Finlandia), che non possiamo certo accusare di inefficienze di sistema.
Anche osservando la dinamica pre-crisi della Francia, noteremmo che - da paese in surplus - è diventata dal 2005 (prima ancora della crisi) importatrice netta di capitali esteri, aggravando così la sua posizione finanziaria sull'estero.
In questo contesto, non è stato casuale l'inserimento nel club dell'EZ di Paesi come l'Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, ecc. clamorosamente sprovvisti dei requisiti di ammissione sanciti dal Trattato di Maastricht. Il loro ingresso ha rappresentato
- l'occasione per "addomesticare" a proprio vantaggio quei competitor europei a forte esportazione, come era l'Italia nei confronti della Germania,
- lo sbocco naturale dei loro prodotti.
Si sono così venuti a profilare, all'interno dell'EZ, due blocchi contrapposti di paesi: quelli a bassa inflazione (capitanati dalla Germania) e quelli ad alta inflazione (Grecia, Portogallo, Spagna su tutti) che hanno progressivamente accresciuto i loro debiti di natura privata. Mentre i primi paesi crescevano per l'afflusso di capitali, i secondi crescevano indebitandosi, peggiorando - progressivamente - la bilancia dei pagamenti, i tassi d'inflazione (che aumentavano) e la competitività.
La Germania, in quanto creditore, aveva ed ha tutto l'interesse a comprimere l'inflazione per non essere rimborsata in moneta "erosa" da svalutazione.
Ma non finisce qua. Al peggioramento del saldo commerciale delle partite correnti, si sono aggiunti gli effetti finanziari della crisi: gli afflussi di capitali sono alimentati ANCHE dalle aspettative di guadagno in conto capitale dei detentori di ricchezze finanziarie (azioni, obbligazioni, ecc.) o reali (immobili) per effetto dell'apprezzameto degli asset posseduti.
Di qui il fenomeno delle bolle speculative, in cui i prezzi s'avvitano in una spirale senza fine e senza più corrispondere al rendimento atteso di lungo termine.
Alla crescita ipertrofica di debito privato, fa da contraltare la contemporanea riduzione dei deficit pubblici, imposti dalle misure d'austerità (tagli alle spese e incremento di pressione fiscale) imposti dall'Europa.
E' questo mix esplosivo che porta all'esplosione della crisi, alla camera della morte sopra accenanta. Il timore di non rientrare più delle proprie esposizioni debitorie, determina il blocco degli afflussi di capitali basati anche sui fondati timori d'insolvenza sovrana, espropriati attraverso la moneta unica della possibilità di farvi fronte.
L'Euro è un gran pasticcio... per tutti, non solo per l'Italia (tarlata dagli atavici problemi d'inefficienza) che, come sosteneva Paolo Baffi, avrebbe dovuto entrare in Europa (sicuramente diversa da quella attuale), con tempi adeguati alla sua situazione economica, senza rinunciare prematuramente alla leva del cambio.
sabato 14 giugno 2014
Italia Germania 0-40
Oggi gli appassionati di calcio avranno gli occhi puntati alla TV per l'esordio della partita della Nazionale che, nell'ormai lontano 1970, si rese celebre per la trionfale e quasi epica vittoria contro la Germania.
Una Germania che evidentemente dev'essersela "legata al dito" contro di noi, non solo per quella partita, ma anche quella competitività del mercato italiano che mordeva troppo alle caviglie teutoniche.
Vi domanderete: ma di cosa stai parlando ?
Non di calcio, tranquilli, ma della più semplice ed elementare legge del mercato: i prezzi salgono se cresce la domanda e l'offerta. Di converso, scendono se cade la domanda e conseguentemente l'offerta.
L'Eurozona, fra gli innumerevoli danni che ha prodotto e che continua a disseminare, è riuscita a sovvertire anche questa banale regola economica. Tutto questo grazie, essenzialmente, alla libera circolazione dei beni e capitali e alla mancata adozione di meccanismi di aggiustamento degli squilibri commerciali che si sono aggravati nel corso degli anni.
Bisogna dirlo per evitare interpretazioni fuorvianti che depistano dalla comprensione della realtà.
A tale riguardo, l'articolo del prof. Tronti documenta come "l'indice dei prezzi al consumo sia aumentato in Italia del 94% (dal 1990 al 2012), mentre in Germania del 52% (42 punti in meno), contro una media dell'EZ del 69% (che significa 25 punti in meno)".
Quindi se un prodotto X nel 1990 poteva grossomodo essere acquistato allo stesso prezzo in Italia e Germania, oggi quello stesso prodotto si paga qui da noi il 40% in più che in Germania.
Il tasso di cambio reale, ossia il rapporto fra il livello generale dei prezzi interni fra due Paesi, in Italia si è svalutato del 21% nei confronti della Germania.
Qual è la ragione di tutto questo, considerando che la dinamica salariale in Italia non ha avuto alcuna incidenza sull'inflazione, restando ancorata ai valori di 20 anni fa ?
A mio modo di vedere, contrariamente dalle conclusioni del prof. Tronti, le cause non sono ravvisabili nelle croniche inefficienze del sistema economico, ma nell'adozione della moneta unica.
La crescita più sostenuta dei prezzi in Italia ha inevitabilmente reso meno competitivi i prodotti nazionale e ha determinato un indebitamento nei confronti del settore estero. Di qui il deficit delle partite correnti.
La Germania, infischiandosi dei princìpi di cooperazione e solidarietà europea (che nei Trattati equivalgono alle "grida manzoniane") ha "giocato" al ribasso, tenendosi ben al di sotto della soglia del 2% prescritta dalla BCE.
In altri termini, la Germania ha svalutato in termini reali rispetto all'Italia e, più in generale rispetto ai PIIGS dell'Eurozona, che hanno simmetricamente rivalutato rispetto ai tedeschi.
Perchè i prezzi della Germania non sono aumentati come avrebbe dovuto accadere seguendo quel normale principio economico che a più domanda segue più offerta e quindi maggior prezzo ?
Per le ragioni anzidette che qui ripeto: libera circolazione dei beni e capitali e la mancata adozione di meccanismi di aggiustamento degli squilibri commerciali che si sono aggravati nel corso degli anni.
La crescita della domanda interna, ma anche nei PIIGS, è stata "drogata" in questi anni da ingenti flussi di capitale provenienti dal Nord Europa e che hanno accresciuto l'inflazione.
La Germania, dalla sua, ha giocato a rubamazzetto come dice Vito Lops; ha riformato il mercato del lavoro precarizzandolo e sottoccupando milioni di tedeschi (destinati alla disoccupazione) attraverso minijobs da 450 Euro mensili che, non dimentichiamolo, fino a poco tempo fa erano cumulabili in capo allo stesso lavoratore che poteva così essere assunto due volte dallo stesso datore di lavoro, senza il versamento di contributi previdenziali (non è dumping salariale ?), registrando, grazie alla rigorosa obbedienza teutonica operaia, una riduzione dei salari pro capite del 6% fra il 2003 e 2009.
Orbene, se un'aggregazione monetaria si pone un obiettivo (a dir poco opinabile) del 2% massimo d'inflazione ed un Paese si mantiene stabilmente MOLTO AL DI SOTTO di questo obiettivo, come ha fatto la Germania, nei fatti quel Paese SVALUTA IN TERMINI REALI.
Questo è quanto è successo: la competitività tedesca che permette forti esportazioni, a danno dei concorrenti, è basata sulla RIDUZIONE DEI SALARI realizzate attraverso le riforme Hartz, vere agevolazioni parafiscali (AIUTI DI STATO) che hanno consentito agli imprenditori tedeschi di competere con maggiore vantaggi rispetto a tutti gli altri.
L'apparente benessere tedesco incentrato sul modello mercantilista nasconde quindi quelle riforme strutturali che si vogliono oggi imporre ai lavoratori e che come abbiamo detto non hanno colpa sull'aumento dei prezzi.
Questo è quanto mi sarei aspettato di leggere dal prof. Tronti, ma che scrivo io.
E ora Buona Partita.
P.S. Per gli appassionati di calcio, il gol in foto è di Schnellinger. E Speriamo bene non solo per stanotte...
Una Germania che evidentemente dev'essersela "legata al dito" contro di noi, non solo per quella partita, ma anche quella competitività del mercato italiano che mordeva troppo alle caviglie teutoniche.
Vi domanderete: ma di cosa stai parlando ?
Non di calcio, tranquilli, ma della più semplice ed elementare legge del mercato: i prezzi salgono se cresce la domanda e l'offerta. Di converso, scendono se cade la domanda e conseguentemente l'offerta.
L'Eurozona, fra gli innumerevoli danni che ha prodotto e che continua a disseminare, è riuscita a sovvertire anche questa banale regola economica. Tutto questo grazie, essenzialmente, alla libera circolazione dei beni e capitali e alla mancata adozione di meccanismi di aggiustamento degli squilibri commerciali che si sono aggravati nel corso degli anni.
Bisogna dirlo per evitare interpretazioni fuorvianti che depistano dalla comprensione della realtà.
A tale riguardo, l'articolo del prof. Tronti documenta come "l'indice dei prezzi al consumo sia aumentato in Italia del 94% (dal 1990 al 2012), mentre in Germania del 52% (42 punti in meno), contro una media dell'EZ del 69% (che significa 25 punti in meno)".
Quindi se un prodotto X nel 1990 poteva grossomodo essere acquistato allo stesso prezzo in Italia e Germania, oggi quello stesso prodotto si paga qui da noi il 40% in più che in Germania.
Il tasso di cambio reale, ossia il rapporto fra il livello generale dei prezzi interni fra due Paesi, in Italia si è svalutato del 21% nei confronti della Germania.
Qual è la ragione di tutto questo, considerando che la dinamica salariale in Italia non ha avuto alcuna incidenza sull'inflazione, restando ancorata ai valori di 20 anni fa ?
A mio modo di vedere, contrariamente dalle conclusioni del prof. Tronti, le cause non sono ravvisabili nelle croniche inefficienze del sistema economico, ma nell'adozione della moneta unica.
La crescita più sostenuta dei prezzi in Italia ha inevitabilmente reso meno competitivi i prodotti nazionale e ha determinato un indebitamento nei confronti del settore estero. Di qui il deficit delle partite correnti.
La Germania, infischiandosi dei princìpi di cooperazione e solidarietà europea (che nei Trattati equivalgono alle "grida manzoniane") ha "giocato" al ribasso, tenendosi ben al di sotto della soglia del 2% prescritta dalla BCE.
In altri termini, la Germania ha svalutato in termini reali rispetto all'Italia e, più in generale rispetto ai PIIGS dell'Eurozona, che hanno simmetricamente rivalutato rispetto ai tedeschi.
Perchè i prezzi della Germania non sono aumentati come avrebbe dovuto accadere seguendo quel normale principio economico che a più domanda segue più offerta e quindi maggior prezzo ?
Per le ragioni anzidette che qui ripeto: libera circolazione dei beni e capitali e la mancata adozione di meccanismi di aggiustamento degli squilibri commerciali che si sono aggravati nel corso degli anni.
La crescita della domanda interna, ma anche nei PIIGS, è stata "drogata" in questi anni da ingenti flussi di capitale provenienti dal Nord Europa e che hanno accresciuto l'inflazione.
La Germania, dalla sua, ha giocato a rubamazzetto come dice Vito Lops; ha riformato il mercato del lavoro precarizzandolo e sottoccupando milioni di tedeschi (destinati alla disoccupazione) attraverso minijobs da 450 Euro mensili che, non dimentichiamolo, fino a poco tempo fa erano cumulabili in capo allo stesso lavoratore che poteva così essere assunto due volte dallo stesso datore di lavoro, senza il versamento di contributi previdenziali (non è dumping salariale ?), registrando, grazie alla rigorosa obbedienza teutonica operaia, una riduzione dei salari pro capite del 6% fra il 2003 e 2009.
Orbene, se un'aggregazione monetaria si pone un obiettivo (a dir poco opinabile) del 2% massimo d'inflazione ed un Paese si mantiene stabilmente MOLTO AL DI SOTTO di questo obiettivo, come ha fatto la Germania, nei fatti quel Paese SVALUTA IN TERMINI REALI.
Questo è quanto è successo: la competitività tedesca che permette forti esportazioni, a danno dei concorrenti, è basata sulla RIDUZIONE DEI SALARI realizzate attraverso le riforme Hartz, vere agevolazioni parafiscali (AIUTI DI STATO) che hanno consentito agli imprenditori tedeschi di competere con maggiore vantaggi rispetto a tutti gli altri.
L'apparente benessere tedesco incentrato sul modello mercantilista nasconde quindi quelle riforme strutturali che si vogliono oggi imporre ai lavoratori e che come abbiamo detto non hanno colpa sull'aumento dei prezzi.
Questo è quanto mi sarei aspettato di leggere dal prof. Tronti, ma che scrivo io.
E ora Buona Partita.
P.S. Per gli appassionati di calcio, il gol in foto è di Schnellinger. E Speriamo bene non solo per stanotte...
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venerdì 13 giugno 2014
Uscire dall'Euro Si Può
Uno dei pregiudizi più ostici quando si dibatte di Euro verte sull'asserita impossibilità di uscita dalla moneta unica in quanto non prevista dal Trattato di Maastricht.
Questa lacuna, già di per sè, dovrebbe far seriamente riflettere sull'antidemocraticità dell' Eurozona, denunciata da Feldstein nell'indifferenza dei più, e candidamente riconosciuta da Jacques Attalì, cofondatore di questa Unione Europea, il quale - per sua stessa ammissione - ne riconosce la recedibilità, sia pure in modi complicati.
La "pietra angolare" su cui ruota l'opportunità di recesso (vedremo poi con quali modalità se meglio concordata o unilaterale) insiste sulla Convenzione di Vienna del 1969 che, nell'ambito del diritto internazionale, rappresenta la fonte di diritto generale e sancisce la prevalenza dei trattati sulle norme di diritto interne da parte degli Stati che ne hanno firmato il predetto riconoscimento.
L'art. 56 prevede la possibilità di recesso dai trattati che nulla dicano in merito a tale facoltà. Si tratta, giuridicamente, di una norma suppletiva (che trova cioè applicazione in via residuale, laddove non sia stata prevista un'esplicita volontà) che codifica quel principio generale di diritto, che va sotto il nome autonomia contrattuale, valevole per le parti di un accordo negoziale di potere liberamente costituire, regolare ed estinguere rapporti giuridicamente rilevanti.
D'altro canto, l'impossibilità d'uscita dall' "esclusivo club dell'Eurozona" cozza irrimediabilmente contro il dettato costituzionale: se ci fosse ancora qualcuno che azzardasse simili interpretazioni, è bene ricordargli che l'art. 11 della Costituzione prevede limitazioni di sovranità, intese come compressioni e non cessioni, nè rinunzie di sovranità; limitazioni di sovranità peraltro subordinate
Questa lacuna, già di per sè, dovrebbe far seriamente riflettere sull'antidemocraticità dell' Eurozona, denunciata da Feldstein nell'indifferenza dei più, e candidamente riconosciuta da Jacques Attalì, cofondatore di questa Unione Europea, il quale - per sua stessa ammissione - ne riconosce la recedibilità, sia pure in modi complicati.
La "pietra angolare" su cui ruota l'opportunità di recesso (vedremo poi con quali modalità se meglio concordata o unilaterale) insiste sulla Convenzione di Vienna del 1969 che, nell'ambito del diritto internazionale, rappresenta la fonte di diritto generale e sancisce la prevalenza dei trattati sulle norme di diritto interne da parte degli Stati che ne hanno firmato il predetto riconoscimento.
L'art. 56 prevede la possibilità di recesso dai trattati che nulla dicano in merito a tale facoltà. Si tratta, giuridicamente, di una norma suppletiva (che trova cioè applicazione in via residuale, laddove non sia stata prevista un'esplicita volontà) che codifica quel principio generale di diritto, che va sotto il nome autonomia contrattuale, valevole per le parti di un accordo negoziale di potere liberamente costituire, regolare ed estinguere rapporti giuridicamente rilevanti.
D'altro canto, l'impossibilità d'uscita dall' "esclusivo club dell'Eurozona" cozza irrimediabilmente contro il dettato costituzionale: se ci fosse ancora qualcuno che azzardasse simili interpretazioni, è bene ricordargli che l'art. 11 della Costituzione prevede limitazioni di sovranità, intese come compressioni e non cessioni, nè rinunzie di sovranità; limitazioni di sovranità peraltro subordinate
- a condizioni di parità fra Stati (e qui sarebbe d'aprire un altro capitolo per esaminare lo status di subordinazione in cui versa la Repubblica Italiana al cospetto degli altri partner europei, che dettano le "regole del gioco"),
- ad ordinamenti capaci di assicurare pace e giustizia fra le Nazioni (e qui calo un veloso pietoso).
L'insopprimibile libertà ed autonomia negoziale di uno Stato è agevolmente deducibile anche dall'art. 50 del Trattato di Lisbona che rafforza, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la natura pattizia e revocabile del trattato UE, disciplinando le modalità formali del recesso.
Con riferimento all'art. 50 TFUE mi preme tuttavia chiarire che l'iter riguarda la procedura d'uscita dall'UE e quindi risulta di difficile applicazione al diverso caso di uscita dal vincolo pattizio dell'€uro.
Secondariamente l'iter in esame risulterebbe essere particolarmente complesso ed oneroso: il paese membro deve infatti notificare l'intenzione di recedere al Consiglio europeo che formulerà i suoi orientamenti per la formalizzazione di un accordo finalizzato a definire le modalità di recesso.
La distillazione dei tempi e le formalità di adempimento, suggellato dai due anni dalla notifica del recesso, risultano essere sconsigliabili ed anzi incompatibili con le modalità di un'uscita che non abbia serie ripercussioni negative a livello economico.
Con riferimento all'art. 50 TFUE mi preme tuttavia chiarire che l'iter riguarda la procedura d'uscita dall'UE e quindi risulta di difficile applicazione al diverso caso di uscita dal vincolo pattizio dell'€uro.
Secondariamente l'iter in esame risulterebbe essere particolarmente complesso ed oneroso: il paese membro deve infatti notificare l'intenzione di recedere al Consiglio europeo che formulerà i suoi orientamenti per la formalizzazione di un accordo finalizzato a definire le modalità di recesso.
La distillazione dei tempi e le formalità di adempimento, suggellato dai due anni dalla notifica del recesso, risultano essere sconsigliabili ed anzi incompatibili con le modalità di un'uscita che non abbia serie ripercussioni negative a livello economico.
Acclarata dunque la possibilità di recesso, ossia di svincolo da un rapporto negoziale, è bene ricordare per i non addetti ai lavori, il diritto di liberarsi da un trattato non solo in caso di inadempimento di una delle parti (la mancata cooperazione economica sancita come principio cardine dei Trattati europei sancito dall'art. 5 TFUE) di cui all' art. 60 della Convenzione di Vienna, ma anche del sopravvenuto mutamento delle originarie condizioni in cui era avvenuta la stipulazione del Trattato (art. 61 per il mutamento della clausola "rebus sic stantibus").
Ma non basta: un'ulteriore possibilità di recesso dall'area monetaria viene argomentata da alcuni autori anche dalla condotta ultra vires delle istituzioni, che hanno esorbitato dalle proprie competenze.
Sotto questo profilo, si osserva che l'adozione di strumenti come il Fiscal Comact, che di fatto impediscono l'applicazione di misure atte a favorire lo sviluppo economico di regioni colpite da gravi forme di disoccupazione, autorizzerebbero la misura del recesso.
Ancora la sovranità, quale potere supremo di uno Stato che si estrinseca nella Costituzione, si autolegittima nel momento organizzativo attraverso quel Potere costituente che dà vita alla Carta fondamentale che si decide di adottare nel "consorzio sociale". E' dunque una sovranità (sociale) che non è derivata come accade per l'Unione europea, la quale - invece - trova la sua ragion d'essere nella volontà degli Stati firmatari e dunque nella natura pattizia, insita nei Trattati, che come tali sono suscettibili di revoca.
Ma non basta: un'ulteriore possibilità di recesso dall'area monetaria viene argomentata da alcuni autori anche dalla condotta ultra vires delle istituzioni, che hanno esorbitato dalle proprie competenze.
Sotto questo profilo, si osserva che l'adozione di strumenti come il Fiscal Comact, che di fatto impediscono l'applicazione di misure atte a favorire lo sviluppo economico di regioni colpite da gravi forme di disoccupazione, autorizzerebbero la misura del recesso.
Ancora la sovranità, quale potere supremo di uno Stato che si estrinseca nella Costituzione, si autolegittima nel momento organizzativo attraverso quel Potere costituente che dà vita alla Carta fondamentale che si decide di adottare nel "consorzio sociale". E' dunque una sovranità (sociale) che non è derivata come accade per l'Unione europea, la quale - invece - trova la sua ragion d'essere nella volontà degli Stati firmatari e dunque nella natura pattizia, insita nei Trattati, che come tali sono suscettibili di revoca.
Insomma, mi pare che di materiale didattico ce ne sia abbastanza per mettere fine anche a questa assurdità, una delle tante farneticazioni che circolano sul tema.
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giovedì 12 giugno 2014
Le cause ed Effetti del Declino Italiano
Il post di oggi prende le mosse dalla conversazione FB intrattenuta col prof. Davanzati, autore dell' articolo "Così muore l'economia italiana", pubblicato da Micro-Mega, in cui individua le causa del declino economico italiano "essenzialmente" nel calo di produttività imputabile a vari fattori fra i quali, non da ultimo, la caduta della domanda aggregata che si è registrata in Italia, almeno a partire dagli ultimi 20 anni, aggravata dalle politiche di austerità.
L'articolo, accompagnato dal grafico sulla dinamica della produttività in Italia, nei paesi europei e negli USA dagli anni 2000-2010, era meritevole di approfondimento con l'autore che a mio avviso illustra le correlazioni fra domanda e produttività, senza tuttavia spiegarne le causalità.
E' di tutta evidenza, infatti, che l'espansione della domanda aggregata generi crescita di produttività e delle strutture dimensionali imprenditive; parimenti, la caduta di essa si ripercuote simmetricamente, con effetto domino, sulla produttività, sui livelli occupazionali (che ovviamente si contraggono), sui salari e dunque sui consumi che disincentivano le innovazioni.
Ferma restando la bontà delle soluzioni ivi suggerite, la concatenazione relazionale dei meccanismi illustrati lascia insolute le radici di questo declino che, contrariamente a quanto dedotto nella premessa dell'articolo, non è affatto antecedente all'adozione della moneta unica, ma ne rappresenta invece la causa scatenante.
Qui a lato (il grafico è di Scenari Economici) si documenta inconfutabilmente la portata della catastrofe e, segnatamente, l'impatto che la moneta unica ha avuto sulla nostra economia.
L'adozione del cambio fisso è assolutamente incompatibile con la nostra struttura economica; paradossalmente, lo stesso grafico pubblicato da Davanzi certifica la disfatta di quanto avvenuto, fotografando la dinamica della produttività negli anni dell'Euro (2000-2010).
Ma se l'avvento della moneta unica decreta la morte produttiva e industriale del sistema italiano, l'esperienza storica più recente ci dimostra che i nostri guai hanno sistematicamente coinciso con l'irrigidimento dei cambi: 1979 (ingresso nello SME), 1987 (ingresso nello SME "credibile") e 1996 sono le 3 date fatidiche che segnano il calo della nostra produttività rispetto soprattutto a quella tedesca.
Viceversa, in presenza di una Lira fluttuante, in regime di cambio fluttuante, abbiamo registrato una migliore variazione produttiva. D'altronde se un accordo valutario chiude i mercati di sbocco determina una flessione delle esportazioni nette. A quel punto è inevitabile che i produttori siano meno incentivati a incrementare la produttività, non avendo ragionevoli aspettattive di collocare i propri prodotti.
Praticare prezzi più convenienti aiuta a diventare più competitivi, ma la maggiore competitività dipende dalle capacità di vendita che oggi (come osservato qui) è penalizzata dall'agganciamento ad una valuta artificialmente sopravvalutata.
Il prof. Davanzati mi ha amabilmente obiettato un'impostazione monocausale, rilevando che "... il tasso di cambio non spiega la recessione dei primi anni sessanta e tantomeno ancora quella ancora più intensa dei primi anni settanta".
In effetti il regime di cambi non c'entra nulla con le crisi di quei due periodi.
Le determinanti della crisi sociale italiana degli anni '60 sono, in qualche misura, coeve alla fase di intenso e straordinario sviluppo rappresentato dal miracolo economico 1956-1962. Nella storia dell'Italia post-unitaria nessun periodo storico ha fatto più registrare un così intenso e prolungato ciclo di espansione. Era dunque del tutto "fisiologico" un rallentamento in quegli anni.
Secondariamente, l'Italia era sproporzionatamente subordinata alle ragioni dell'economia americana e agli interessi strategici del sistema sovranazionale incardinato attorno agli USA.
Negli anni '70, invece, è stato lo shock petrolifero ad avviare non solo in Italia, ma in tutti i paesi occidentali, politiche recessive che col cambio flessibile non avevano alcun legame. Vieppiù nella metà degli anni '70 si è registrata una contrazione del commercio internazionale del 5% che non si verificava addirittura dal 1952.
Mi pare quindi di poter sostenere che "a crisi diverse" debbano essere addotte ragioni obiettivamente diverse. A conforto di quanto sia penalizzante la moneta unica richiamo ancora qui di seguito il seguente grafico:
che il prof. Sapir ha commentato col seguente tweet:
QUESTO PROVA (1) EFFETTI NEGATIVI DELL'EURO (2) CHE L'ITALIA ERA UN COMPETITOR DELLA GERMANIA (3) LA GERMANIA STA USANDO L'EURO COME UN'ARMA.
AMEN
L'articolo, accompagnato dal grafico sulla dinamica della produttività in Italia, nei paesi europei e negli USA dagli anni 2000-2010, era meritevole di approfondimento con l'autore che a mio avviso illustra le correlazioni fra domanda e produttività, senza tuttavia spiegarne le causalità.
E' di tutta evidenza, infatti, che l'espansione della domanda aggregata generi crescita di produttività e delle strutture dimensionali imprenditive; parimenti, la caduta di essa si ripercuote simmetricamente, con effetto domino, sulla produttività, sui livelli occupazionali (che ovviamente si contraggono), sui salari e dunque sui consumi che disincentivano le innovazioni.
Ferma restando la bontà delle soluzioni ivi suggerite, la concatenazione relazionale dei meccanismi illustrati lascia insolute le radici di questo declino che, contrariamente a quanto dedotto nella premessa dell'articolo, non è affatto antecedente all'adozione della moneta unica, ma ne rappresenta invece la causa scatenante.
Qui a lato (il grafico è di Scenari Economici) si documenta inconfutabilmente la portata della catastrofe e, segnatamente, l'impatto che la moneta unica ha avuto sulla nostra economia.
L'adozione del cambio fisso è assolutamente incompatibile con la nostra struttura economica; paradossalmente, lo stesso grafico pubblicato da Davanzi certifica la disfatta di quanto avvenuto, fotografando la dinamica della produttività negli anni dell'Euro (2000-2010).
Ma se l'avvento della moneta unica decreta la morte produttiva e industriale del sistema italiano, l'esperienza storica più recente ci dimostra che i nostri guai hanno sistematicamente coinciso con l'irrigidimento dei cambi: 1979 (ingresso nello SME), 1987 (ingresso nello SME "credibile") e 1996 sono le 3 date fatidiche che segnano il calo della nostra produttività rispetto soprattutto a quella tedesca.
Viceversa, in presenza di una Lira fluttuante, in regime di cambio fluttuante, abbiamo registrato una migliore variazione produttiva. D'altronde se un accordo valutario chiude i mercati di sbocco determina una flessione delle esportazioni nette. A quel punto è inevitabile che i produttori siano meno incentivati a incrementare la produttività, non avendo ragionevoli aspettattive di collocare i propri prodotti.
Praticare prezzi più convenienti aiuta a diventare più competitivi, ma la maggiore competitività dipende dalle capacità di vendita che oggi (come osservato qui) è penalizzata dall'agganciamento ad una valuta artificialmente sopravvalutata.
Il prof. Davanzati mi ha amabilmente obiettato un'impostazione monocausale, rilevando che "... il tasso di cambio non spiega la recessione dei primi anni sessanta e tantomeno ancora quella ancora più intensa dei primi anni settanta".
In effetti il regime di cambi non c'entra nulla con le crisi di quei due periodi.
Le determinanti della crisi sociale italiana degli anni '60 sono, in qualche misura, coeve alla fase di intenso e straordinario sviluppo rappresentato dal miracolo economico 1956-1962. Nella storia dell'Italia post-unitaria nessun periodo storico ha fatto più registrare un così intenso e prolungato ciclo di espansione. Era dunque del tutto "fisiologico" un rallentamento in quegli anni.
Secondariamente, l'Italia era sproporzionatamente subordinata alle ragioni dell'economia americana e agli interessi strategici del sistema sovranazionale incardinato attorno agli USA.
Negli anni '70, invece, è stato lo shock petrolifero ad avviare non solo in Italia, ma in tutti i paesi occidentali, politiche recessive che col cambio flessibile non avevano alcun legame. Vieppiù nella metà degli anni '70 si è registrata una contrazione del commercio internazionale del 5% che non si verificava addirittura dal 1952.
Mi pare quindi di poter sostenere che "a crisi diverse" debbano essere addotte ragioni obiettivamente diverse. A conforto di quanto sia penalizzante la moneta unica richiamo ancora qui di seguito il seguente grafico:
che il prof. Sapir ha commentato col seguente tweet:
QUESTO PROVA (1) EFFETTI NEGATIVI DELL'EURO (2) CHE L'ITALIA ERA UN COMPETITOR DELLA GERMANIA (3) LA GERMANIA STA USANDO L'EURO COME UN'ARMA.
AMEN
Italiano di che ti lamenti ?
Il post non è poi così tanto provocatorio: prende spunto da questa slide che fa un'efficace sintesi delle nostre abitudini di consumo, che abbiamo ormai consolidato nel vivere quotidiano senza, forse, neppure accorgercene.
Compriamo, mangiamo, beviamo e ci vestiamo tutto estero.
Qualcuno dirà: se vuoi che il tuo Paese produca, compra ciò di che è capace a produrre. Elementare Watson, se non fosse che quegli stessi prodotti, che qui vediamo elencati, realizzati in Italia sono meno competitivi e meno concorrenziali.
Le ragioni di tutto questo coincidono esattamente con le ragioni per cui siamo in crisi. E perchè siamo in crisi ? Qui il dibattito politico ed economico si divide.
Da una parte c'è chi individua le ragioni del nostro declino nella "castacriccacorruzionedebito" (su cui rinvio a questo post).
Altri invece ritengono che il problema risieda sul lato offerta, vale a dire nella caduta di produttività italiana e nella carenza di investimenti privati.
Ma siamo sicuri che sia questa la corretta chiave di lettura ? E' mai possibile che abbiamo perso - improvvisamente - la nostra capacità di fare e di fare bene, di competere, noi italiani che abbiamo diffuso e fatto apprezzare il Made in Italy in tutto il mondo ?
Se vogliamo dare una risposta credibile al legittimo interrogativo, dobbiamo necessariamente volgere il nostro sguardo al "passato", alla storia economica più recente da cui emerge un dato inconfutabile: i cali di produttività italiana - e conseguentemente la perdita di competitività - hanno sempre e sistematicamente coinciso con l'introduzione di cambi fissi: è successo dopo il 1979, quando l'Italia entrò nello SME, dopo il 1987 quando entrammo nello SME credibile (regime di cambio ancora più rigido) e infine nel 1996 quando l'allora Governo Prodi diede corso al programma di rivalutazione per il nostro ingresso nella tonnara dell'Euro.
Già, perchè, fra le tante sciagure che abbiamo patito e stiamo patendo, c'è la sventura di esserci agganciati ad una valuta (l'Euro) che, essendo una media fra tutte le monete confluite nel "club dell'Eurozona", risulta artificiamente sopravvalutata rispetto alle nostre caratteristiche economiche.
E' successo, infatti, che passando dalla lira all'Euro, l'Italia sia passata da una valute "debole" ad una più forte; di converso, la Germania, passando dal marco all'Euro è passata da una moneta "forte" ad una più debole.
Abbiamo assistito a bank-run ? ossia a corse agli sportelli presso le banche tedesche per prelevare i propri marchi e scongiurare la pericolosa svalutazione della propria valuta ? Macchè, nient'affatto, anzi ....
I tedeschi sono passati da una divisa (il marco) che rispetto al dollaro si rivalutava, ad una valuta (l'Euro) che nei suoi primi anni si è addirittura svalutato del 30 % rispetto al $.
Così, la casalinga di Dusseldorf ha continuato a fare la propria spesa nei supermercati di Dusseldorf, a comprare i suoi prodotti, i pendolari hanno continuato a usare i mezzi di trasporto tedeschi, ecc. ecc.
L'area valutaria dell'Euro ha di fatto chiuso i mercati di sbocco ai prodotti italiani, dando luogo ad una flessione di esportazioni nette. Va da sè che, esportando meno, si vendano meno prodotti e, di conseguenza, gli imprenditori abbiano meno risorse da investire per innovare, migliorare i prodotti.
I dati storici sono impietosi su questo fenomeno: la produttività media del lavoro è crollata in 40 anni, dimezzandosi dal 4% (dal 1970 al 1980) al 2% (dal 1981 al 1995), per poi declinare, ulteriormente, allo 0,2% nel periodo 1996 - 2009.
Queste considerazioni nulla vogliono, nè intendono rappresentare un'alibi ai mali storici italiani che peraltro non hanno impedito buone performance in altre circostanze temporali (il riallineamento del cambio nel 1984 ha effettivamente dato una "boccata d'ossigeno" alla nostro produttività; l'uscita dallo SME nel '92 ha ridato impulso positivo alla nostra produttività che ha recuperato su quella tedesca).
Ma, come vederemo, non finisce qui perchè noi Italiani brilliamo per astuzia solo nelle barzellette con tedeschi, francesi, ma quando si parla di economia e finanza ci facciamo spennare come polli.
Compriamo, mangiamo, beviamo e ci vestiamo tutto estero.
Qualcuno dirà: se vuoi che il tuo Paese produca, compra ciò di che è capace a produrre. Elementare Watson, se non fosse che quegli stessi prodotti, che qui vediamo elencati, realizzati in Italia sono meno competitivi e meno concorrenziali.
Le ragioni di tutto questo coincidono esattamente con le ragioni per cui siamo in crisi. E perchè siamo in crisi ? Qui il dibattito politico ed economico si divide.
Da una parte c'è chi individua le ragioni del nostro declino nella "castacriccacorruzionedebito" (su cui rinvio a questo post).
Altri invece ritengono che il problema risieda sul lato offerta, vale a dire nella caduta di produttività italiana e nella carenza di investimenti privati.
Ma siamo sicuri che sia questa la corretta chiave di lettura ? E' mai possibile che abbiamo perso - improvvisamente - la nostra capacità di fare e di fare bene, di competere, noi italiani che abbiamo diffuso e fatto apprezzare il Made in Italy in tutto il mondo ?
Se vogliamo dare una risposta credibile al legittimo interrogativo, dobbiamo necessariamente volgere il nostro sguardo al "passato", alla storia economica più recente da cui emerge un dato inconfutabile: i cali di produttività italiana - e conseguentemente la perdita di competitività - hanno sempre e sistematicamente coinciso con l'introduzione di cambi fissi: è successo dopo il 1979, quando l'Italia entrò nello SME, dopo il 1987 quando entrammo nello SME credibile (regime di cambio ancora più rigido) e infine nel 1996 quando l'allora Governo Prodi diede corso al programma di rivalutazione per il nostro ingresso nella tonnara dell'Euro.
Già, perchè, fra le tante sciagure che abbiamo patito e stiamo patendo, c'è la sventura di esserci agganciati ad una valuta (l'Euro) che, essendo una media fra tutte le monete confluite nel "club dell'Eurozona", risulta artificiamente sopravvalutata rispetto alle nostre caratteristiche economiche.
E' successo, infatti, che passando dalla lira all'Euro, l'Italia sia passata da una valute "debole" ad una più forte; di converso, la Germania, passando dal marco all'Euro è passata da una moneta "forte" ad una più debole.
Abbiamo assistito a bank-run ? ossia a corse agli sportelli presso le banche tedesche per prelevare i propri marchi e scongiurare la pericolosa svalutazione della propria valuta ? Macchè, nient'affatto, anzi ....
I tedeschi sono passati da una divisa (il marco) che rispetto al dollaro si rivalutava, ad una valuta (l'Euro) che nei suoi primi anni si è addirittura svalutato del 30 % rispetto al $.
Così, la casalinga di Dusseldorf ha continuato a fare la propria spesa nei supermercati di Dusseldorf, a comprare i suoi prodotti, i pendolari hanno continuato a usare i mezzi di trasporto tedeschi, ecc. ecc.
L'area valutaria dell'Euro ha di fatto chiuso i mercati di sbocco ai prodotti italiani, dando luogo ad una flessione di esportazioni nette. Va da sè che, esportando meno, si vendano meno prodotti e, di conseguenza, gli imprenditori abbiano meno risorse da investire per innovare, migliorare i prodotti.
I dati storici sono impietosi su questo fenomeno: la produttività media del lavoro è crollata in 40 anni, dimezzandosi dal 4% (dal 1970 al 1980) al 2% (dal 1981 al 1995), per poi declinare, ulteriormente, allo 0,2% nel periodo 1996 - 2009.
Queste considerazioni nulla vogliono, nè intendono rappresentare un'alibi ai mali storici italiani che peraltro non hanno impedito buone performance in altre circostanze temporali (il riallineamento del cambio nel 1984 ha effettivamente dato una "boccata d'ossigeno" alla nostro produttività; l'uscita dallo SME nel '92 ha ridato impulso positivo alla nostra produttività che ha recuperato su quella tedesca).
Ma, come vederemo, non finisce qui perchè noi Italiani brilliamo per astuzia solo nelle barzellette con tedeschi, francesi, ma quando si parla di economia e finanza ci facciamo spennare come polli.
mercoledì 11 giugno 2014
La Missione Tradita della BCE
Da troppo tempo si sta stratificando nell'opinione pubblica e nei dibattiti il convincimento che la funzione unica della BCE, sulla base della normativa europea, sia rappresentata dall'esigenza di far salva la "stabilità dei prezzi".
E' bene ricordare che la BCE racchiude nel suo mandato anche un altro dovere, troppo spesso colpevolmente sottaciuto: "contribuire a realizzare gli obiettivi dell'Unione" prescritti dal Trattato sull'Unione Europea che, guardacaso, sancisce la "piena occupazione" (art. 3 par. 3 TUE).
Abbiamo già visto che stabilità dei prezzi (quindi controllo dell'inflazione) e piena occupazione siano condizionalità antitetiche: nel momento in cui ci si prefigge un programma di pieno impego, occorre accettare l'idea dell'innalzamento dell'inflazione.
La domanda che allora sorge spontanea è: come mai non si contemperino le due soluzioni ? In altri termini, perchè Mario Draghi non coniuga gli obiettivi di salvaguardia e controllo dei prezzi, nei limiti istituzionalmente sanciti dal Trattato di Maastricht, con l' ulteriore "realizzazione degli obiettivi comunitari" che la stragrande maggioranza degli economisti sembra essersi dimenticata.
L'interpretazione letterale della norma che intende far salva la finalità principale della stabilità dei prezzi non ha alcun pregio. Il legislatore europeo non dispone infatti l'assoluto sacrificio di una finalità (l'occupazione) per perseguire l'esclusiva realizzazione dell'altro obiettivo, ossia l'incondizionata realizzazione del controllo dei prezzi.
E' evidente che i due obiettivi debbano essere contemperati e che quindi politiche di sostegno all'occupazione debbano essere coordinate nei limiti del 2% di inflazione.
La realtà dei fatti dimostra chiaramente che questo non avviene: la BCE tradisce la sua mission, sbilanciandola nettamente a favore dell'esclusivo controllo dei prezzi e con l'adozione di misure che nulla hanno a che fare per sostenere la piena occupazione.
La priorità alla lotta all'inflazione, che l'art.127 TFUE offre, non inficia dunque il perseguimento contemporaneo dell'ulteriore scopo sancito dalla norma (la realizzazione degli obiettivi dell'Unione) che non costituisce affatto obiettivo marginale o accessorio, essendo - anzi - un principio cardine che permea l'intero assetto normativo europeo ripetutamente richiamato in varie sezioni.
Quindi la prevalenza di un fine (il controllo dei prezzi) non comporta affatto l'eliminazione o sacrificio dell'altro. La BCE sta operando in base al principio "tamquam non esset", come se il suo agire fosse unicamente ispirato all'esigenza di controllo dell'inflazione. Non lo è affatto.
La priorità alla lotta all'inflazione, che l'art.127 TFUE offre, non inficia dunque il perseguimento contemporaneo dell'ulteriore scopo sancito dalla norma (la realizzazione degli obiettivi dell'Unione) che non costituisce affatto obiettivo marginale o accessorio, essendo - anzi - un principio cardine che permea l'intero assetto normativo europeo ripetutamente richiamato in varie sezioni.
Quindi la prevalenza di un fine (il controllo dei prezzi) non comporta affatto l'eliminazione o sacrificio dell'altro. La BCE sta operando in base al principio "tamquam non esset", come se il suo agire fosse unicamente ispirato all'esigenza di controllo dell'inflazione. Non lo è affatto.
Di qui la conseguenza: è una "missione tradita", quella di Draghi, posto a capo di una istituzione che, di fatto, non si raccorda con le finalità sancite dai Trattati.
martedì 10 giugno 2014
Scacciavillani e la Manopola del Volume
Fabio Scacciavillani, capo economista di fondi d'investimenti dell'Oman, si diletta, di tanto in tanto, a catturare magicamente l'attenzione di fans e followers dispensando in rete "pillole di saggezza" che mirano non soltanto a "cannonare" chi propone il ritorno alla lira e alla sovranità monetaria (qui la gustosissima storify di Claudio Borghi), ma che sovvertono anche i più elementari princìpi di economia politica.
E' il tweet qui incorniciato, ove il nostro investitore omanita s'ascrive fra i negazionisti di quel legame fra disoccupazione ed inflazione (tema a lui particolarmente caro), di cristallina evidenza ai tanti che la sperimentano sulla propria pelle; in ambito macro-economico va sotto il nome di Curva di Phillips, ma per il nostro economista senza turbante si risolve, evidentemente, in una manopola del volume di qualche apparecchio elettronico prodotto dall' "omonima" (?) azienda olandese.
Non occorrono master, specializzazioni varie o altre amenità per sconfessare una simile corbelleria che, fra le tante che circolano, contribuiscono ad inquinare il mare magnum dell'informazione.
E' evidente, in un contesto come l'attuale dominato da forte disoccupazione, che più sono i lavoratori disponibili, più un imprenditore potrà selezionare le richieste di assunzione, offrire e quindi "spuntare" salari più bassi. E' la più semplice e banale legge della domanda e della offerta, tale per cui la disoccupazione altro non è che un esubero di lavoratori non assorbiti dal mercato del lavoro.
Quindi se come oggi la disoccupazione sale, i salari si riducono e quindi, con meno redditi da consumare, l'inflazione si riduce.
Disvelato questo segreto, che non possiamo certo annoverare fra quelli di Fatima, emerge, dunque, una esplicita relazione inversa (gli inglesi parlano di trade-off, costo/opportunità), di lungo periodo, tra inflazione e disoccupazione. Ne consegue che quando l'inflazione è elevata (perchè aumenta l'indice generale dei prezzi dato che i lavoratori hanno redditi da consumare), avremo un riassorbimento della disoccupazione e viceversa.
Questo, beninteso, non significa escludere equilibri di breve periodo caratterizzati da disoccupazione, nell'ambito dei quali possano essere adottate politiche di gestione della domanda aggregata che riconducano al descritto risultato.
Ciò che preme qui rilevare è la descrizione di quel rapporto inverso fra inflazione e disoccupazione messo in luce nella sua formulazione originaria (e poi ripreso da Samuelson e Solow) per effetto del quale è possibile far "funzionare" un'economia a condizione che si accetti una crescita generalizzata dei prezzi e dunque dell'inflazione.
Le critiche, formulate negli anni Settanta dagli economisti neoclassici sull'asserita inefficacia del modello, allorchè molti paesi sperimentarono simultaneamente elevata disoccupazione ed inflazione, furono in realtà frutto di erronea interpretazione fenomenica: gli andamenti inflattivi sono infatti condizionati non già da un eccesso di moneta (come ipotizzato da Friedman & C.), ma da diversi elementi che concorrono a formare i prezzi (dinamiche delle materie prime, all'epoca il petrolio), di cui la retribuzione della forza lavoro è una variabile certamente rilevante, ma non certo unica, nè determinate in contesti macro-economici di forti variazioni degli altri costi).
Questi concetti sono noti al nostro Scacciavillani: la ragione è perchè mentire ? Ricerca di analisi stravaganti. Io glielo domando qua. Ai posteri l'ardua sentenza ;)
E' il tweet qui incorniciato, ove il nostro investitore omanita s'ascrive fra i negazionisti di quel legame fra disoccupazione ed inflazione (tema a lui particolarmente caro), di cristallina evidenza ai tanti che la sperimentano sulla propria pelle; in ambito macro-economico va sotto il nome di Curva di Phillips, ma per il nostro economista senza turbante si risolve, evidentemente, in una manopola del volume di qualche apparecchio elettronico prodotto dall' "omonima" (?) azienda olandese.
Non occorrono master, specializzazioni varie o altre amenità per sconfessare una simile corbelleria che, fra le tante che circolano, contribuiscono ad inquinare il mare magnum dell'informazione.
E' evidente, in un contesto come l'attuale dominato da forte disoccupazione, che più sono i lavoratori disponibili, più un imprenditore potrà selezionare le richieste di assunzione, offrire e quindi "spuntare" salari più bassi. E' la più semplice e banale legge della domanda e della offerta, tale per cui la disoccupazione altro non è che un esubero di lavoratori non assorbiti dal mercato del lavoro.
Quindi se come oggi la disoccupazione sale, i salari si riducono e quindi, con meno redditi da consumare, l'inflazione si riduce.
Disvelato questo segreto, che non possiamo certo annoverare fra quelli di Fatima, emerge, dunque, una esplicita relazione inversa (gli inglesi parlano di trade-off, costo/opportunità), di lungo periodo, tra inflazione e disoccupazione. Ne consegue che quando l'inflazione è elevata (perchè aumenta l'indice generale dei prezzi dato che i lavoratori hanno redditi da consumare), avremo un riassorbimento della disoccupazione e viceversa.
Questo, beninteso, non significa escludere equilibri di breve periodo caratterizzati da disoccupazione, nell'ambito dei quali possano essere adottate politiche di gestione della domanda aggregata che riconducano al descritto risultato.
Ciò che preme qui rilevare è la descrizione di quel rapporto inverso fra inflazione e disoccupazione messo in luce nella sua formulazione originaria (e poi ripreso da Samuelson e Solow) per effetto del quale è possibile far "funzionare" un'economia a condizione che si accetti una crescita generalizzata dei prezzi e dunque dell'inflazione.
Le critiche, formulate negli anni Settanta dagli economisti neoclassici sull'asserita inefficacia del modello, allorchè molti paesi sperimentarono simultaneamente elevata disoccupazione ed inflazione, furono in realtà frutto di erronea interpretazione fenomenica: gli andamenti inflattivi sono infatti condizionati non già da un eccesso di moneta (come ipotizzato da Friedman & C.), ma da diversi elementi che concorrono a formare i prezzi (dinamiche delle materie prime, all'epoca il petrolio), di cui la retribuzione della forza lavoro è una variabile certamente rilevante, ma non certo unica, nè determinate in contesti macro-economici di forti variazioni degli altri costi).
Questi concetti sono noti al nostro Scacciavillani: la ragione è perchè mentire ? Ricerca di analisi stravaganti. Io glielo domando qua. Ai posteri l'ardua sentenza ;)
domenica 8 giugno 2014
Clientelismo e Corruzione per Abbattere lo Stato Nemico dei Cittadini
Tangentopoli, inteso come come generico fenomeno corruttivo, risale alla notte dei tempi, è tuttora in corso e sempre ci sarà. Voi direte: d'accordo, lo sappiamo, c'è bisogno di farne un post ?
La risposta è sì, occorre farne un post per analizzare il significato che oggi queste patologie sociali assumono nel clima recessivo di scarsità delle risorse (tema che preannuncio fin d'ora sarà oggetto di separata trattazione): questi disvalori assumono, infatti, un profilo particolarmente odioso e insopportabile (sono risorse sottratte al buon funzionamento del sistema !), ma sono funzionali all'ideologia per cui lo Stato è il Nemico dei cittadini, è il prevaricatore dei diritti individuali e va ridotto ai minimi termini.
Tassazioni sempre più asfissianti e burocrazia sempre più cavillosa e onnipresente acuiscono il sentimento di autentico odio di cittadini e imprese contro le istituzioni nazionali e sono pronti, per questo, a consegnare le "chiavi" della loro sovranità all'Europa che, in cambio, chiede loro maggiori sacrifici, in nome di quella dissipazione perpetrata all'interno dei loro spazi sovrani da quelle classi politiche c.d. digerenti.
Si assiste dunque ad un pericoloso "corto circuito della democrazia": la popolazione (alludo a quella italiana), tradita dai suoi rappresentanti, è prona all'UE, a mettere " la testa sopra il ceppo ", a legittimare quelle politiche di austerità che si abbattono come una vera scure che condannano alla morte un'interna nazione.
Ecco allora che le riforme devono essere assunte sotto il ricatto dello spread dei mercati, sotto la logica della perenne emergenza che sottrae al dibattito democratico la scelta migliore che deve essere assunta nell'interesse del Paese, perchè la crisi economica assurge a metodo di governo e di disciplinamento della popolazione che dev'essere costretta ad accettare meno diritti.
Si profila dunque una lucida strategia in cui s'interviene sull'opinione pubblica che dev'essere incattivita, condotta al ripudio delle proprie istituzioni nazionali (lerce e corrotte), si disattivano gli strumenti normativo-costituzionali che si sono affermati nel continente europeo e s'incardina un nuovo assetto strutturale privo di controllo e di legittimazione democratica.
Questo progetto è chiaramente già in itinere: gli stati dell'Eurozona sono stati espropriati della loro sovranità monetaria, i Parlamenti nazionali già da ora non possono discutere della legge finanziaria elaborata dal Governo se non ha prima superato il vaglio ed ottenuto l'approvazione della Commissione Europea. Questi sono solo alcuni esempi, ma esplicativi del progressivo smantellamento interno delle sovranità nazionali.
Siamo certi di aver chiaro che la degenerazione dell'apparato statuale non sia riconducibile all'assetto normativo costituzionale, ritenuto (erroneamente) sorpassato, inadeguato ?
Le riforme che in questi anni si sono susseguite, in nome della semplificazione dei procedimenti e dei controlli statali sugli atti delle Regioni ed Enti Locali, sono in realtà degenerate in una vera sottrazione di controlli preventivi statali e sono culminate con la riforma del titolo V della Costituzione. (Regioni, Province e Comuni).
Non c'è dunque da meravigliarsi se gli scandali di questi anni abbiano riguardato principalmente Consigli regionali (caso Fiorito) o, per restare sulla cronaca, il Comune di Venezia (scandalo Mose) o l'Expo di Milano.
Dati alla mano dimostrano che la situazione di scandali e corruzioni è gravemente peggiorata da quando, attraverso la riforma della Costituzione, sono stati rimossi quei controlli preventivi statali, aderendo a quei principi chiesti e voluti dall'Europa: mi riferisco al principio di sussidiarietà, tale per cui in caso di sovrapposizione di funzioni fra Stato e Regione, l'ente gerarchicamente sottordinato assolve quel determinato compito in luogo dell'ente sovraordinato.
Su questi dati non c'è molto da obiettare: la Banca Mondiale, attraverso il suo Rating of Control of Corruption, conferma il peggioramento dell'indice di corruzione nell'Unione Europea, in cui non si salvano nè le istituzioni europee, nè la Germania (si vedano le tangenti della Thyssen-Krupp in Grecia, lo scandalo corruzione della Siemens o quelli a luci rosse di Hartz).
E' questa la realtà a cui dovremmo agganciarci ? Dobbiamo ridere o piangere ?
Diventa dunque indispensabile ridefinire compiti e funzioni dello Stato contemporaneo, che ha il dovere non soltanto di rinsaldare quei rapporti di solidarietà ed unione che legano i suoi componenti, ma anche di riposizionarsi nei rapporti con i suoi cittadini, attivandosi per rimuovere tutti quegli ostacoli economico-sociali che si frappongono all'effettiva uguaglianza sostanziale.
Se lo Stato non recupera il valore della sua ragion d'essere, di struttura che ha il dovere di realizzare razionalmente i fini prescritti dalla Costituzione, mediante la crescita della ricchezza collettiva attraverso politiche di espansione di spesa pubblica per il raggiungimento del pieno impiego, non avremo più alcun futuro.
sabato 7 giugno 2014
Maastricht e quegli Insanabili Difetti di Fabbrica
Ci ritorneremo più volte su questo tema: i difetti di fabbrica insanabili del Trattato di Maastricht.
Quello che mi preme ora ricordare è che il trattato europeo fra le tante anomalie, contiene la clausola di "no-bailout" che impedisce la sospensione temporanea delle regole europee per aiutare i paesi in difficoltà.
A questa si aggiunge l'indipendenza della BCE da qualsiasi istituzione europea. Questa autonomia costituzionale, attribuita nel Trattato dell'Unione alla BCE, non si rinviene affatto negli USA, ove la FED ha l'obbligo semestrale di rendicontazione del suo operato (di politica monetaria) nei confronti del Senato.
La complessità e le diversità dei sistemi economici riuniti nel "club dell'EZ" è ridotta alla valutazione di un solo indicatore: l' inflazione unica e valida per tutti i paesi. Un assurdo, figlio della ideologia monetarista che identifica la moneta come "causa" diretta dell'aumento dei prezzi.
Accanto a questo, si aggiunga l'assurdita di un criterio di gestione degli equilibri economici, sociali e politici attraverso l'introduzione del patto di stabilità che nulla dice sulle cause di squilibrio dei bilanci pubblici, nulla dice sulle misure preventive di controllo, ma trasferisce sulla collettività quelle misure di riequilibrio determinate dai deficit.
Va da sè, a questo punto, che sfruttando le asimmetrie economiche, c'è chi come la Germania abbia "giocato" al ribasso per fondare il "successo" del proprio modello mercantilista. Gli squilibri commerciali diventano quindi l'effetto inevitabile del problema. Il detonatore della crisi risiede nei fondamentali dell'economia reale (indebitamento privato). Se i conti esteri non sono in equilibrio, ci si espone ad attacchi speculativi a cui si può rispondere svalutando (se si dispone di sovranità monetaria) o comprimendo i salari, l'occupazione e i prezzi.
Quello che mi preme ora ricordare è che il trattato europeo fra le tante anomalie, contiene la clausola di "no-bailout" che impedisce la sospensione temporanea delle regole europee per aiutare i paesi in difficoltà.
A questa si aggiunge l'indipendenza della BCE da qualsiasi istituzione europea. Questa autonomia costituzionale, attribuita nel Trattato dell'Unione alla BCE, non si rinviene affatto negli USA, ove la FED ha l'obbligo semestrale di rendicontazione del suo operato (di politica monetaria) nei confronti del Senato.
La complessità e le diversità dei sistemi economici riuniti nel "club dell'EZ" è ridotta alla valutazione di un solo indicatore: l' inflazione unica e valida per tutti i paesi. Un assurdo, figlio della ideologia monetarista che identifica la moneta come "causa" diretta dell'aumento dei prezzi.
Accanto a questo, si aggiunga l'assurdita di un criterio di gestione degli equilibri economici, sociali e politici attraverso l'introduzione del patto di stabilità che nulla dice sulle cause di squilibrio dei bilanci pubblici, nulla dice sulle misure preventive di controllo, ma trasferisce sulla collettività quelle misure di riequilibrio determinate dai deficit.
Va da sè, a questo punto, che sfruttando le asimmetrie economiche, c'è chi come la Germania abbia "giocato" al ribasso per fondare il "successo" del proprio modello mercantilista. Gli squilibri commerciali diventano quindi l'effetto inevitabile del problema. Il detonatore della crisi risiede nei fondamentali dell'economia reale (indebitamento privato). Se i conti esteri non sono in equilibrio, ci si espone ad attacchi speculativi a cui si può rispondere svalutando (se si dispone di sovranità monetaria) o comprimendo i salari, l'occupazione e i prezzi.
Grillo La Paura dei Rincari delle Materie Prime in caso di EuroExit
Il 9 marzo scorso, a Siena, Beppe Grillo, nel corso di un incontro m5s, ha manifestato la preoccupazione per l'aumento dei costi d'importazione in caso di Euro-exit, che ha quantificato in 110 mld. di Euro, di cui 60 mld. in energia fossile. Altri dati sono riportati qui a lato.
Qual è la verità ?
La verità è che i prezzi delle materie prime subiscono sui mercati forti oscillazioni, talvolta persino superiori a quelli delle svalutazioni senza che nessuno se ne accorga.
Nel 2008, ad esempio, il prezzo del petrolio scese da 140 a 25 dollari al barile. Questo calo non produsse variazioni sul prezzo dei carburanti alla pompa che anzi ... con l'Euro ha addirittura raggiunto il prezzo di 2 Euro al litro !
Oltre il 60% del prezzo del carburante è dato da tasse letteralmente inventate dallo Stato, spesso per compiacere l'Europa come l'ultimo forte rialzo stabilito dal governo Monti.
Ne consegue che il rincaro del greggio derivante dalla reintroduzione della nuova lira "svalutata" possa essere agevolmente riassorbito eliminando tutti gli inutili balzelli che oggi paghiamo.
Ricordiamo che l'Italia è un paese trasformatore: importa materie prime ed energie ed esporta prodotti finiti ad alto valore aggiunto.
Supponiamo, per assurdo che l'incidenza dei costi d'energia e materie prima sia del 50% (e quasi mai accade in simile percentuale !) e che il costo di un prodotto "X" sia pari a 100. A fronte di una ipotetica svalutazione del 20%, il costo di energie e materie prime passerebbe da 50 a 60 e, dunque, il costo finale interno del prodotto passerebbe a 110.
Per i mercati esteri, invece, il nostro prodotto costerebbe il 20% in meno, pari alla svalutazione, e dunque 88 (110 meno il 20% fa 88 ;) diventando molto più competitivo persino nel caso estremo in cui, come abbiamo ipotizzato, le materie prime e le energie incidessero per la metà del costo di produzione.
Se Grillo avesse dato un'occhiata a qualche nostro post, magari avrebbe risolto tutte le sue paure e seminato più informazione e meno panico.
Qual è la verità ?
La verità è che i prezzi delle materie prime subiscono sui mercati forti oscillazioni, talvolta persino superiori a quelli delle svalutazioni senza che nessuno se ne accorga.
Nel 2008, ad esempio, il prezzo del petrolio scese da 140 a 25 dollari al barile. Questo calo non produsse variazioni sul prezzo dei carburanti alla pompa che anzi ... con l'Euro ha addirittura raggiunto il prezzo di 2 Euro al litro !
Oltre il 60% del prezzo del carburante è dato da tasse letteralmente inventate dallo Stato, spesso per compiacere l'Europa come l'ultimo forte rialzo stabilito dal governo Monti.
Ne consegue che il rincaro del greggio derivante dalla reintroduzione della nuova lira "svalutata" possa essere agevolmente riassorbito eliminando tutti gli inutili balzelli che oggi paghiamo.
Ricordiamo che l'Italia è un paese trasformatore: importa materie prime ed energie ed esporta prodotti finiti ad alto valore aggiunto.
Supponiamo, per assurdo che l'incidenza dei costi d'energia e materie prima sia del 50% (e quasi mai accade in simile percentuale !) e che il costo di un prodotto "X" sia pari a 100. A fronte di una ipotetica svalutazione del 20%, il costo di energie e materie prime passerebbe da 50 a 60 e, dunque, il costo finale interno del prodotto passerebbe a 110.
Per i mercati esteri, invece, il nostro prodotto costerebbe il 20% in meno, pari alla svalutazione, e dunque 88 (110 meno il 20% fa 88 ;) diventando molto più competitivo persino nel caso estremo in cui, come abbiamo ipotizzato, le materie prime e le energie incidessero per la metà del costo di produzione.
Se Grillo avesse dato un'occhiata a qualche nostro post, magari avrebbe risolto tutte le sue paure e seminato più informazione e meno panico.
La Raccolta del Grano senza Semina
Ma si può raccogliere il grano senza prima seminarlo ?
Gli Stati che investono in cultura ed informazione sono quelli che recuperano molto più rapidamente, in tempi di crisi, di quelli, come il nostro, che vantano la triste tradizione di scarsi investimenti nella ricerca. Un esempio ? Lo Stato d'Israele investe il 4% del suo PIL in ricerca; la tecnologia avanzata è una delle principali fonti di produzione industriale ed esportazione del paese.
In Italia per la ricerca si spende sempre meno, poco più del 1% del PIL.
Qualcuno penserà che sia solo un caso, il classico esempio d'inefficienza e sprechi di risorse. In Israele hanno sovranità monetaria e noi no ..., ma c'è un ma. Nell'Unione Europea c'è una straordinaria assurdità che pochi sanno e molti fingono di non sapere: 1/3 circa dei nostri contributi che destiniamo come risorse comunitarie per la ricerca va al finanziamento della ricerca di ALTRI PAESI.
Un esempio di benaltruismo ? No, è l'ennesimo segno di una Nazione incapace di voler fare gli interessi dei propri cittadini..
Gli Stati che investono in cultura ed informazione sono quelli che recuperano molto più rapidamente, in tempi di crisi, di quelli, come il nostro, che vantano la triste tradizione di scarsi investimenti nella ricerca. Un esempio ? Lo Stato d'Israele investe il 4% del suo PIL in ricerca; la tecnologia avanzata è una delle principali fonti di produzione industriale ed esportazione del paese.
In Italia per la ricerca si spende sempre meno, poco più del 1% del PIL.
Qualcuno penserà che sia solo un caso, il classico esempio d'inefficienza e sprechi di risorse. In Israele hanno sovranità monetaria e noi no ..., ma c'è un ma. Nell'Unione Europea c'è una straordinaria assurdità che pochi sanno e molti fingono di non sapere: 1/3 circa dei nostri contributi che destiniamo come risorse comunitarie per la ricerca va al finanziamento della ricerca di ALTRI PAESI.
Un esempio di benaltruismo ? No, è l'ennesimo segno di una Nazione incapace di voler fare gli interessi dei propri cittadini..
Eurocrazia Il Grande Inganno dell'Euro
Questo blog nasce dall'esigenza di analisi del periodo che stiamo vivendo: il decadimento morale della società, la manipolazioni sistematiche degli organi d'informazione, l'incapacità delle attuali forze politiche di dare degna rappresentazione a quella società civile che si ribella, ma che non riesce a coagularsi per dare un'efficace espressione allo sdegno ed al desiderio di riscatto.
La fase che stiamo attraversando non è figlia del caso, ma il punto di arrivo di un lungo percorso ideologico che, attraverso il "sogno della grande Europa Unita" nella pace e cooperazione, si sta rivelando una vera "camicia di forza" entro la quale far coesistere paesi dalle profonde divergenze economiche.
Eurocrazia - Il Grande Inganno dell'Euro è il titolo di questo blog, il neologismo coniato dal grande Diego Fusaro, filosofo del nostro tempo, per identificare quel sistema cancerogeno di potere, insediatosi a Bruxelles, che punta al "disciplinamento" e all'addomesticamento della popolazione europea al credo del libero mercatismo, alla celebrazione di quella libertà individuale che deve compiutamente realizzarsi senza ostacoli di sorta, attraverso il principio del "tutti contro tutti".
Molte sono le persone che ancora oggi credono nell'idea di una riforma della costruzione europea. Sono in buona fede, ma in questo blog cercherò di sfatare questo mito a cui, io per primo, confesso di aver creduto.
Un edificio è veramente stabile e sicuro solo se poggia su solide fondamenta. Questa Europa nasce, invece, con difetti di fabbrica così gravi da rendere impossibile ogni speranza di modifica.
Bisogna arrivare consapevolmente alla conclusione che il prodotto va buttato via per riappropriarci di quella sovranità (derubata) che i padri costituenti hanno ammesso potesse essere solo compressa, limitata a
Vorrei far notare un altro dato: la crisi oggi morde dappertutto, non soltanto nei paesi considerati pigri, inefficienti, ed incapaci, i cosiddetti PIIGS, ma anche quelli virtuosi come la Finlandia.
Bisogna maturare quindi una consapevolezza critica di analisi, che richiede studio, riflessione e tempo, tempo che si sta pericolosamente assottigliando come in una clessidra. Le percentuali di suicidi, di malattie psichiche, fallimenti di aziende sono la cartina di tornasole di un sistema che non regge: siamo sotto un incantesimo.
Ci risveglieremo da questo torpore che avvolge la popolazione italiana ?
Non ho la sfera di cristallo per poterlo dire, ma quel che è certo è che dovremo tutti impegnarci e renderci protagonisti diretti del nostro futuro, perchè è in gioco la nostra vita e quella delle generazioni future.
Qualcuno potrebbe chiedermi: ma perchè non fare una rivoluzione armata ? Primo perchè non appartiene alla mia indole l'idea impugnare un'arma per uccidere qualsiasi uomo.
Secondo perchè, se mai la disperazione dovesse portare ad un gesto così estremo ed irrazionale, lo troverei perfino troppo "onorevole" nei riguardi di chi si è macchiato di questo crimine contro l'umanità.
Preferisco condannare all'oblio chi sta mietendo tanta sofferenza, che farlo assurgere ad agnello sacrificale celebrato sull'altare della storia come "vittima incolpevole" di una rivoluzione che va fatta in forma non convenzionale.
Troppe volte la storia ha dimostrato i tragici errori umani. Sappiamone trarre un utile insegnamento affinchè questa rivoluzione sia svolta con la forza degli argomenti e dell'informazione che stenta a circolare. Solo così potremo costruire una società più libera e giusta.
La fase che stiamo attraversando non è figlia del caso, ma il punto di arrivo di un lungo percorso ideologico che, attraverso il "sogno della grande Europa Unita" nella pace e cooperazione, si sta rivelando una vera "camicia di forza" entro la quale far coesistere paesi dalle profonde divergenze economiche.
Eurocrazia - Il Grande Inganno dell'Euro è il titolo di questo blog, il neologismo coniato dal grande Diego Fusaro, filosofo del nostro tempo, per identificare quel sistema cancerogeno di potere, insediatosi a Bruxelles, che punta al "disciplinamento" e all'addomesticamento della popolazione europea al credo del libero mercatismo, alla celebrazione di quella libertà individuale che deve compiutamente realizzarsi senza ostacoli di sorta, attraverso il principio del "tutti contro tutti".
Molte sono le persone che ancora oggi credono nell'idea di una riforma della costruzione europea. Sono in buona fede, ma in questo blog cercherò di sfatare questo mito a cui, io per primo, confesso di aver creduto.
Un edificio è veramente stabile e sicuro solo se poggia su solide fondamenta. Questa Europa nasce, invece, con difetti di fabbrica così gravi da rendere impossibile ogni speranza di modifica.
Bisogna arrivare consapevolmente alla conclusione che il prodotto va buttato via per riappropriarci di quella sovranità (derubata) che i padri costituenti hanno ammesso potesse essere solo compressa, limitata a
- condizioni di pace e giustizia fra le nazioni e
- situazioni di parità con altri stati (art. 11 Cost.).
Vorrei far notare un altro dato: la crisi oggi morde dappertutto, non soltanto nei paesi considerati pigri, inefficienti, ed incapaci, i cosiddetti PIIGS, ma anche quelli virtuosi come la Finlandia.
Bisogna maturare quindi una consapevolezza critica di analisi, che richiede studio, riflessione e tempo, tempo che si sta pericolosamente assottigliando come in una clessidra. Le percentuali di suicidi, di malattie psichiche, fallimenti di aziende sono la cartina di tornasole di un sistema che non regge: siamo sotto un incantesimo.
Ci risveglieremo da questo torpore che avvolge la popolazione italiana ?
Non ho la sfera di cristallo per poterlo dire, ma quel che è certo è che dovremo tutti impegnarci e renderci protagonisti diretti del nostro futuro, perchè è in gioco la nostra vita e quella delle generazioni future.
Qualcuno potrebbe chiedermi: ma perchè non fare una rivoluzione armata ? Primo perchè non appartiene alla mia indole l'idea impugnare un'arma per uccidere qualsiasi uomo.
Secondo perchè, se mai la disperazione dovesse portare ad un gesto così estremo ed irrazionale, lo troverei perfino troppo "onorevole" nei riguardi di chi si è macchiato di questo crimine contro l'umanità.
Preferisco condannare all'oblio chi sta mietendo tanta sofferenza, che farlo assurgere ad agnello sacrificale celebrato sull'altare della storia come "vittima incolpevole" di una rivoluzione che va fatta in forma non convenzionale.
Troppe volte la storia ha dimostrato i tragici errori umani. Sappiamone trarre un utile insegnamento affinchè questa rivoluzione sia svolta con la forza degli argomenti e dell'informazione che stenta a circolare. Solo così potremo costruire una società più libera e giusta.
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